A pochi passi dal Corso, in una viuzza stretta stretta, guardando verso l’alto, si vedono aprirsi grandissimi finestroni, molto più grandi di tutti gli altri della zona: questo è l’unico indizio per riconoscere dall’esterno la sinagoga.
Certo, anche la toponomastica aiuta: siamo in via delle scuole. Queste “SCUOLE” deriva dallo yiddish Shul e in italiano prende il significato proprio di sinagoga, senza dimenticare che anche non questa di Pesaro era attiva una yeshivà, una scuola di studi talmudici.
La sinagoga di Pesaro è un piccolo gioiello dal sapore decadente, una bellezza lasciata spoglia dei suoi averi eppure, proprio per questo, incanta con la sua semplicità.
Costruita tra il 1556 e il 1559 in un momento estremamente favorevole alla comunità Israelita, è stata utilizzata fino alla Seconda guerra mondiale. A seguito della Shoà, l’esigua comunità rimasta è stata accorpata a quella di Ancona che ancora oggi, una volta alla settimana, si occupa di tenere aperti i siti israeliti della sinagoga e del cimitero.
Alla metà del XVI secolo, gli ebrei pesaresi vissero un momento fortunato perché dopo la strage dei “marrani” di Ancona nel 1555, il porto di quest’ultima venne boicottato in favore di quello di Pesaro, favorendo così i commerci e l’arrivo di molti ebrei sefarditi.
Ben accolti dai della Rovere, gli ebrei pesaresi verranno rinchiusi in ghetto a partire dal 1631, allorché il ducato venne devoluto allo Stato Pontificio: anche la legislazione cambiò seguendo quella papale.
Visitando la sinagoga, si ha una doppia esperienza temporale: molte delle strutture sono ancora quelle originali, si può seguire la ritualità ebraica passo passo attraverso gli ambienti da poco restaurati ( e lavori di conservazione sono ancora in corso a proteggere questo patrimonio) e visitare nei locali del piano terra la mostra permanente sulle vicissitudini degli Ebrei pesaresi durante la Shoà.
A piano terra si trovano il forno, usato per la cottura dei pani azzimi, il pozzo e il miqwè (vasca) per i bagni rituali. L’importanza dell’acqua è sottolineata dalla presenza della bella fontana in pietra anche ai piedi della scalinata che porta nella sala di preghiera.
Ed è proprio salendo che si entra nella grande sala di tipologia bifocale, con l’Aaron (armadio che contiene i rotoli della Torah) in fronte e il pulpito, Bimah o Tevah, rialzato sopra l’entrata a cui si accede attraverso due rampe curvilinee.
Una posizione del pulpito molto particolare che si ritrova solo in alcune delle sinagoghe sefardite come a Carpentras in Francia, ad Ancona e a Safed, in Palestina.
Il matroneo è a livello della sala, solo sul lato sinistro e al momento non è accessibile ma si intravede attraverso gli spazi lasciati liberi dalle grate, ora a Gerusalemme.
Spoglia, perché tutti gli arredi hanno trovato nuove dimore, la sinagoga pesarese non manca di fascino, forse lo acquista, anzi, tramite l’assenza. Lunghe corde pendono dal bel soffitto in stucco a rosoni, corde a cui una volta erano appesi enormi lampadari. Le panche in legno sembrano ancora aspettare i loro fedeli e quando il sole filtra forte dalle grandissime finestre, ancora si illuminano gli sbiaditi decori a foglie di quercia: un albero sacro e un omaggio alla dinastia dei Della Rovere.