Dopo l’articolo, non troppo recente, sui leoni di pietra del Duomo di Firenze, eccomi di nuovo a scrivere di animali e di bestiari.
Questa volta però rivolgiamo la nostra attenzione alla famiglia che più di ogni altra ha contribuito alla storia, all’ arte e alla bellezza della città; parliamo dei Medici di Firenze e di una delle loro imprese, ovvero quegli emblemi personali (corpo dell’impresa) accompagnati da motti (anima dell’impresa).
Nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, aula grandiosa e di straordinaria bellezza, assieme agli affreschi cinquecenteschi, alle pitture dei soffitti lignei, alle sculture di Vincenzo de’ Rossi, al Genio della Vittoria di Michelangelo, vi sono delle statue marmoree che celebrano alcuni personaggi famosi della famiglia de’ Medici: papi, condottieri, duchi di Firenze e granduchi di Toscana.
Ognuno di questi personaggi è accompagnato dalla propria impresa.
Vediamo, fra gli altri, Cosimo I con la tartaruga sormontata da una vela e l’anima definita dalle parole “festina lente” (affrettati lentamente) e poi Alessandro, il primo duca di Firenze con il rinoceronte e le parole “non buelvo sin vencer” e Francesco, il secondo granduca di Toscana, con sopra una donnola che tiene un ramoscello in bocca: il suo emblema, accompagnato dal motto “amat victoria curam” (il successo ama la preparazione).
Perché Francesco avrebbe scelto questa strana impresa?
Girolamo Ruscelli, cartografo, scrittore e alchimista vissuto nel XVI secolo, nella stessa epoca del granduca de’ Medici, riferendosi agli scritti dei “migliori filosofi” la spiega così: “E fra le altre meraviglie, che [i migliori filosofi] raccontano per vere, grandissima è quella della Donnola, la quale avendo per naturale istinto inimicizia aperta con il Rospo, o Botta, che vogliamo dire, subito che la vede è necessitata a darsegli in preda, e cadere vinta nell’occulta forza dell’inimico, il quale con la bocca aperta la incontra per inghiottirla; ma a quello la natura ha anco provvisto, percioché subito che essa Donnola sente dell’inimico l’odore, corre a pigliar il salutar rimedio della Ruta; e toltone un picciol ramo in bocca ritorna al Rospo, il quale odora l’acutissima erba, che ne crepa e muore.
Questa donnola adunque con un ramo in bocca da una parte, e il rospo che sta ad inghiottirla dall’altra, fu levata per impresa da quello serenissimo e felicissimo principe [Francesco de’ Medici]”.
In realtà, a ben guardare l’emblema del secondo granduca di Toscana non vi si vede il rospo ma solo la donnola con un ramoscello di ruta in bocca.
La donnola è presente in tutti i bestiari, da quelli più antichi a quelli tardo medievali anche Aristotele ne parla nella Historia Animalium, così come Plinio nella Historia Naturalis.
Tuttavia di questa ostilità con il rospo, io non ho trovato traccia, se non nel testo sopra citato.
Si parla invece del serpente o del basilisco quale nemico della donnola e si possono osservare misteriose abilità curative dell’animale.
Comune a tutti i Bestiari è la strana proprietà della femmina del mustelide di ricevere il seme dall’orecchio e di partorire dalla bocca ma nei bestiari medievali del XII e XIII secolo si riporta pure la sua misteriosa capacità taumaturgica.
“Si dice che siano esperte [le donnole] di medicina, cosicché se per caso i loro piccoli vengono uccisi, se riescono a ritrovarli li riportano in vita”, così l’Anonimo Bestiario di Oxford ma simili narrazioni si ritrovano nel “Bestiario d’Amore” di Fournival e ne “Les Livres dou Trésor” di Brunetto Latini.
Anche nella descrizione che ne dà Aristotele, le donnole mostrano una misteriosa conoscenza delle piante medicinali e combattono i serpenti solo dopo aver mangiato della ruta, il cui odore è venefico per i rettili.
Come non vedere in questa impresa di Francesco un simbolico riferimento alla sua passione verso l’alchimia, in modo particolare l’alchimia “medica” di cui ci informa, in maniera dettagliata, l’ambasciatore veneziano Andrea Gussoni, il quale scrive del principe de’ Medici:
“…ma sopra a tutto ha gran diletto di lavorare di lambicchi formando molte acque e dei sublimati atti al medicamento di molte infermità, e ne ha quasi per ognuna, e fra le altre fa un olio di si eccellente virtù che guarisce e difende da ogni sorta di veleno, sana gli impestati, preserva i sani ed è attivissimo rimedio alle petecchie e a ogni sorte di febbre maligna e mi ha detto averne voluto fare esperienze del veleno in persone che doveva far morire per giustizia facendo loro bere del veleno e con questo suo olio l’ha del tutto guariti […].”